Una donna, ancora
di Riccardo Lisi, febbraio 2008
E l'uomo disse:"Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne." (Genesi, 2.27)
Normalmente quando visitiamo una mostra d’arte tendiamo a ricordare il percorso a partire dalle tipologie di opere viste, qua delle sculture, là delle fotografie.
Invece l’arte di Beat Kuert – e nello specifico la mostra in programma all’Officinaarte a Magliaso – non andrebbe suddivisa in termini di medium o tecnica impiegata, quanto magari per il concetto d’immagine che l’artista intendeva esprimere nel momento della creazione.
Si tratta infatti di un’arte totale, un’arte che intende man mano precisare un’idea iconografica, facendo entrare lo spettatore in essa.
Quest’artista si è formato a Zurigo, da dove proviene. Tra gli anni ’60 e i ’70 in quell’ambiente era consueto realizzare opere impegnate e gli artisti ritenevano necessario scendere in piazza, rompendo le barriere tradizionali tra intellettuali e proletari, tra creatori e spettatori.
Beat Kuert – pur condividendo tali idee e attingendo ancor oggi alcune suggestioni dalla vitalità di quel periodo – preferiva invece realizzare i suoi primi filmati nella natura, in dialogo con la sua interiorità in lavori girati, per esempio, in montagna. Si trattava di opere di ricerca di taglio introspettivo e questa è rimasta una costante nel tempo nel suo lavoro.
Fin da giovane, Kuert comincia a lavorare come regista di documentari e programmi televisivi; anche realizzando filmati che parlano di arte e architettura, ma come oggetto rappresentato.
L’interesse per la sperimentazione non si è mai interrotto e una sua evoluzione è stata stimolata dalla diffusione di nuovi media e ambiti - dalla videoarte all’immagine fissa tratta da un filmato, elaborata e stampata - in particolare nel nuovo millennio. Un punto di svolta è avvenuto nel 2005, con la creazione del gruppo dust&scratches, in cui l’integrazione tra vari linguaggi artistici – video, performance live, poesia, musica – si realizza nella collaborazione interpersonale.
In questo caso la forza e le possibilità del lavoro in team modificano la facies e il modo di fruire anche dell’operato di Beat Kuert: non più semplici visioni di un video su un monitor, ma eventi complessi e completi, dove i molteplici apporti personali e disciplinari compongono un tutt’uno inscindibile.
Anche le esposizioni di Beat Kuert, in veste di singolo artista come a Magliaso, si presentano come un tutto in sé, sottoposto alla visione del pubblico senza alcuna interposizione concettuale. L’opera di Kuert è infatti fortemente istintiva: è ciò che egli sente di fare con i mezzi ora disponibili. Viene in mente una frase di Kandinsky: “La vera opera d'arte nasce "dall'artista" in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. diventa un aspetto dell'essere” (da Lo spirituale nell’arte, 1909)
Questa istintività – e il percepire un “obbligo” alla propria espressione – ricorda anche l’approccio all’arte e alla creazione da parte dei beat. Un gioco di parole tra Beat e beat per nulla vacuo. Quella generazione ha creato nuovi modi di usare la parola e nuovi modi di usare l’immagine; essa ha influenzato fortemente il lavoro di questo artista, le cui opere possono essere viste come forme di poesia visiva. Di nuovo emergono riprese di concetti e approcci all’arte del secondo dopoguerra, ma in forme nuove, grazie anche allo sviluppo tecnologico. Un po’ come se quest’artista – in modo assai personale – avesse “digerito” molteplici influssi da decenni, anche lontani, di opere d’arte visiva.
Credo vi siano riferimenti evidenti ad alcuni lavori di un pioniere della videoarte, il coreano Nam June Paik, che proprio durante il periodo beat cominciò a sperimentare nell’analogico elaborazioni cromatiche e di texture così presenti sia nelle immagini fisse che in movimento delle creazioni di Kuert. Qui i colori son acidi, coprenti, netti, ma in qualche caso sfumati in tinte pastello.
I colori puri prevalgono, riempiendo campiture irregolari e vi è a volte una tendenza di forme decisamente figurative verso una riduzione concettuale. Anche la tavolozza di quest’artista riduce volontariamente la policromia a pochi colori, che satura. Cromatismi omogenei giungono a volte fino al bianco e nero, con finte macchie di sviluppo e giochi di sovrapposizione che fanno pensare a montaggi di antiche ricerche fotografiche.
Le texture sono nervose, “elettriche”, riemergono a tratti linee di scansione e pixel video, mentre altre volte immagini già cromaticamente pop sono puntinate come le icone di Lichtenstein. Si ritrovano poi nel lavoro di Beat Kuert i tratti di una certa tradizione germanica: le figure suggeriscono allo spettatore percezioni di espressioni in modo diretto, ma da interpretare in modo personale: faccia a faccia, l’artista e lo spettatore, ma sempre tramite un’opera che non richiede in realtà una spiegazione concettuale. Ricordiamo che Kandinsky scrisse anche: “Ci sarà sempre qualcosa che la parola non può rendere compiutamente e che non è il superfluo, ma l'essenziale”.
Le immagini fisse appaiono composte da figure, ma sovente inserite in composizioni ritmate da elementi appartenenti ad altri linguaggi: pentagrammi, calligrafie, interi versi di poesie e di testi afferenti ai miti evocati dall’artista. Kuert procede per famiglie di opere, per esempio lavorando con differenti elaborazioni sul medesimo videogramma, ma è costante la presenza, appunto, di figure mitiche sempre femminili.
Dalla Donna carnivora alla Solo-me – figura egotica fino al desiderare l’altrui morte, come Salomè – sono le attrici e ballerine che collaborano con dust&scratches in video e live performance a divenire esse stesse elementi di una mitologia immanente che riguarda tutti noi uomini.
Perché tutti noi proveniamo da un utero e in fondo non c’è nulla di così organico a riguardarci direttamente – geneticamente - anche se i tabù spingono per farci dimenticare l’ovvietà della nascita.
Kuert è conscio della capacità di coinvolgimento delle performance live che il suo gruppo realizza in situazioni e locations privilegiate, come per esempio l’anno scorso a Piazza San Marco.
La mostra sarà completata da suoni e visioni a quattro canali testimonianti la ricerca audiovisiva più recente di Beat Kuert, così connessa alle opere “fisse”, per stile e per essere la materia prima di quella che in effetti può essere considerata una forma di “pittura digitale”, anche se il pennello è costituito da una penna ottica.
In occasione del vernissage a Magliaso vivrà in modo effimero un’installazione performativa: due giovani attrici, vestite di sola creta, mosse da sensualità propriamente femminile e da aggressività animalesca, faranno uso del corpo mettendo alla prova la loro resistenza fisica e psicologica.
La mostra proseguirà per solo tre pomeriggi e serate e in questa occasione è previsto un programma di proiezioni dei nuovi video realizzati da dust&scratches.
Dunque i molteplici interessi di Beat Kuert – letteratura, musica, fotografia, video, pittura, recitazione, danza – si uniscono in una composizione a tutto tondo permessa da un universo digitale che nel suo caso evoca figure mitiche create da lui stesso e dai suoi collaboratori, ma in fondo antiche quanto l’umanità stessa. Un’umanità che è costituita da donne e da uomini.
Ragionando sulla donna – su quale donna? – è possibile forse conseguire un’idea, in generale, dell’uomo – e di quale uomo?